Rosberg e “la scalata della montagna”: dal test di Jerez del 2003 al mondiale con Mercedes

sabato 3 dicembre 2016 · Amarcord
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Il 21 ottobre è il giorno di Alain Prost che sfortunato ci ha perso due mondiali, il 2 dicembre adesso è indiscutibilmente il giorno di Nico Rosberg, apre e chiude la parabola del figlio di Keke in Formula 1: 2 dicembre del 2003 il primo test, a Jerez sulla Williams insieme con un altro figlio d’arte, tale Piquet junior che poi s’è fatto ricordare per altro; 2 dicembre 2016 il giorno dell’annuncio dell’addio al gala di Vienna.

In mezzo, quella che lui chiama “la scalata della montagna”, una progressione costante in lucidità, intelligenza tattica e preparazione tecnica. A corredo di un talento di base non superlativo, ma sopra la media comunque.

Tant’è che al debutto ufficiale Rosberg junior è subito una promessa, a Sakhir nel 2006 è lui il personaggio della stampa: sveglio e astuto, conquista il paddock con giro record, look da star e una frase entusiasmante: “Mi avevano detto che i sorpassi erano impossibili. Invece li ho trovati facili”.

La Williams ovviamente è solo il team per farsi le ossa nell’attesa della grande chiamata. Che arriva nel 2010 per correre sulla Mercedes. Là Nico trova Michael Schumacher, non sfigura, anzi vince alla grande il confronto che lo prepara ai tre anni “bellissimi e durissimi”, quelli della lotta psicofisica contro Lewis Hamilton dal 2014.

È una battaglia che a poco a poco cresce d’intensità: Rosberg a Monaco scrive una pagina controversa, arriva lungo al Mirabeau, congela la classifica delle qualifiche e si tiene la pole. “Un errore onesto”, dice. “Un errore ironico” ribatte Hamilton che non può fare il tempo. Per i commissari non c’è dolo. Ma Hamilton cova rancore: “Devo valutare ogni scenario. Devo fare come Senna”. Rosberg ha il dente avvelenato dalla Spagna, sostiene che Hamilton per batterlo si sia aiutato con una mappatura che la squadra aveva proibito.

Insomma ci sono tutti i presupposti per la prima collisione: Rosberg forza il sorpasso a Spa, gli fora la posteriore sinistra e gli distrugge la gara. Il team allora fissa le regole, promette “appropriate misure disciplinari”. Quali, non è dato sapere. Ma due settimane dopo c’è Monza, dove Rosberg clamorosamente raddrizza la chicane in fondo al rettifilo e si fa passare da Hamilton che poi vince. Forse a saldo del debito per il danno del Belgio.

Alla fine quel mondiale lo vince Hamilton. All’ultima corsa Rosberg perde 3 secondi al giro per il guasto del sistema di recupero dell’energia, la squadra gli propone il ritiro quando si avvicina l’onta del doppiaggio, lui insiste per continuare, accetta la sconfitta nella maniera più elegante, professionale e matura.

Ma il titolo l’anno dopo gli sfugge ancora: Nico ad Austin si fa scappare la macchina in accelerazione mentre è in testa, lascia accomodare Hamilton che fa tre come Senna. Il mondiale psicologicamente se n’è già andato, se ne va anche matematicamente.

Arriva il 2016, Rosberg scatta da campione, ne vince quattro di fila da Melbourne a Sochi. E poi cominciano i guai. Gli altri incidenti con Hamilton, cioè: Barcellona al via dopo tre curve, Spielberg all’ultimo giro. Nasce qualche crepa, Nico deve fare appello a fiducia e autocontrollo, prosciuga tutte le energie per tenere la testa alta fino all’ultimo, fino alla trappola di Hamilton che ad Abu Dhabi guida da tassista per portarlo nelle fauci degli avversari e strappargli il titolo: “Un anno difficilissimo”, ammette. Esce vincente. Poi crolla.

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