Il decennio di Hermann Tilke: da Sepang a Yeongam, tutte le piste del guru

mercoledì 20 ottobre 2010 · Amarcord
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Ci aveva visto giusto Philippe Alliot nel 1990: “La legge sul tabacco finirà per proibire le corse in Francia, Germania e Gran Bretagna. Vorrà dire che ce ne andremo a correre a Honolulu, Singapore e Shanghai”. Honolulu (ancora) no, ma su Singapore e Shanghai ci ha preso in pieno.

Ecclestone la mente, Tilke il braccio: domenica si corre in Corea a Yeongam, che nella rivoluzione degli autodromi è l’ennesima – ma mica l’ultima – frontiera. Su 19 piste in calendario, Tilke ne ha plasmate 9. Con l’India in arrivo si prepara a fare 10 su 20. Il 50 percento. E poi avrà mezzo mondo in pugno.

Sepang (1999). Su un’area di 70 mila metri quadrati, a 60 chilometri da Kuala Lumpur. All’epoca del debutto è il nuovo standard: mega le gradinate, ampie le vie di fuga, larghissimi i box. Superbo il complesso dell’architettura delle tribune che richiamano le palme della Malesia.

Hockenheim (2002). In teoria è una ristrutturazione, in pratica è uno sconvolgimento a tutti gli effetti: della vecchia pista coi rettilinei nel bosco sopravvive solo il Motodrom. Il resto è una parabolica lunghissima prima di un tratto misto che ai piloti dice poco e agli spettatori ancora meno.

Sakhir (2004). Il capriccio dello sceicco del Bahrain, una cattedrale in mezzo al deserto roccioso di Manama, per un investimento complessivo che supera i 150 milioni di dollari. Il tocco artistico di Tilke: il paddock che sembra un’oasi con le torri di avvistamento, il tracciato che scompare in mezzo alle dune.

Shanghai (2004). Dentro una palude, 300 metri sotto il livello del mare, spesa doppia rispetto al Bahrain, strutture faraoniche, fondamenta in polistirene, pagode sospese nell’acqua dietro il paddock, ombrelli a forma di fiori di loto sulla tribuna del tornantino, capienza massima 200 mila spettatori, 9 sviluppi alternativi del tracciato che segue la forma del primo ideogramma di Shanghai.

Istanbul Park (2005). Più sobrio rispetto a Shanghai, più tecnico rispetto a tutti gli altri. Nella metà orientale della città, nei pressi di Kurtköy, capienza 150 mila spettatori, 25 mila nella tribuna principale. Nove milioni di metri cubi di terra spostati per riprodurre le ondulazioni dell’asfalto, 14 curve su un dislivello complessivo di 46 metri, difficoltà di guida concentrate nella curva 8.

Valencia (2008). Non permanente, nel porto della città, 25 le curve, nessuna da pelo. I box sono i vecchi hangar della Coppa America. Il passaggio più spettacolare: quello sul ponte girevole di Calatrava.

Singapore (2008). La prima pista pensata in funzione di un Gran Premio in notturna, 23 curve sparpagliate nella baia, velocità massima 300 orari. Il disegno originale proposto da Tilke viene riadattato dall’americana Kbr, l’impianto d’illuminazione invece è made in Italy. Praticamente, un circuito multietnico.

Abu Dhabi (2009). Sull’isola artificiale di Yas, la versione extra lusso di Monte-Carlo, l’ostentazione della ricchezza a due passi dal parco tematico della Ferrari. Tracciato insipido: è il contorno che fa la differenza. Costo: non milioni, ma miliardi di dollari. Posti a sedere: appena 40 mila, però sono per portafogli pesanti. Si corre fra il tramonto e il primo buio.

Yeongam (2010). Semipermanente, tre rettifili e un tratto misto. Commissionato da Korea Auto Valley Operation, col sostegno diretto del governo di Seoul, per un investimento di oltre 400 milioni di dollari, comprensivi della spesa per il parco tecnologico. Anche qui Tilke si rifà alla cultura locale: lo stile delle costruzioni ricalca quello degli hanok, gli edifici tipici della Corea.

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